martedì 4 ottobre 2016

Dal romanzo Premio Pulitzer di Philip Roth, una tradizionale trasposizione per il debutto nella regia di Ewan McGregor: "American Pastoral"

Un bel debutto – tradizionale - nella regia per l’attore Ewan McGregor per la trasposizione del romanzo di Philip Roth, vincitore del premio Pulitzer “American Pastoral”. L’attore scozzese a Roma per presentare e promuovere il film insieme alla coprotagonista Jennifer Connelly, visto che l’Italia è stata il primo paese ad acquistare il film al Festival di Cannes. Narra la storia di Seymour Levoy soprannominato ‘lo Svedese’ (lo stesso McGregor), un uomo che dalla vita ha avuto tutto: bellezza, carriera, soldi, una moglies ex Miss New Jersey, Dawn (Connelly) e una bambina a lungo desiderata Merry (Dakota Fanning da adulta). Però il suo mondo ad un certo punto, pian piano, va in pezzi qualdo la figlia ormai adolescente (in pieni anni Sessanta)
compie un attacco terroristico che provoca una vittima. Com’è possibile che una tragedia di questa portata sia accaduta proprio allo ‘Svedese’, la persona che per tutta la sua esistenza ha incarnato il ‘sogno americano’? Dove ha sbagliato, se ha sbagliato? “Per interpretare quella che Merry diventerà ci volevano tre attrici – esordisce McGregor -, sapevo che da adulta sarebbe stata Dakota Fanning, comunque, la prima ad essere contattata è stata Jennifer Connelly, perché la moglie e madre doveva essere una donna credibile, e Jennifer è un’attrice di grande talento. Le bambine di 7 anni che hanno fatto i provini facevano paura, sembravano adulte, ho fatto delle letture con loro, erano ben preparate, ma l’unica che poteva
avvicinarsi al ruolo è stata Ocean (James) perché le altre erano molto rigide. Poi, per Merry a 12 anni, ho visto e preso subito Hannah Nordberg, bravissima e bellissima, soprattutto nella scena in cui camminiamo lungo il fiume”. “Non mi assomiglia né come personaggio né come madre – afferma la Connelly -, passare da un personaggio ad un altro ti permette di vedere le cose da un altro punto di vista, mi ha commosso il rapporto che ha con sua figlia e col marito”.
“E’ stata un’esperienza che mi ha cambiato la vita – ribatte l’attore regista -, la desideravo da anni, ma non volevo farla tanto per farlo. Avevo la speranza di affrontare una conversazione creativa con lo sceneggiatore, i tecnici e il responsabile del montaggio (Melissa Kent ndr.); vedendo il film in un altro modo con la costumista (Lindsay Ann McKay), il direttore fotografia (Martin Ruhe), poi con gli attori con cui abbiamo scoperto e costruito insieme tutte le scene, non potrei essere più felice. Ho scoperto i retroscena, i rapporti e i dissidi fra la troupe e la produzione, perché il regista ha un lavoro anche gestionale della paura degli altri, tenendosi le sue paure. Ora mi sento più maturo”.
“Un progetto straordinario. La sceneggiatura (di John Romano ndr.) mi ha toccato profondamente – prosegue –, mi sono commosso fino al pianto, essendo padre di 4 figlie, la storia di una famiglia che perde una figlia, che compie un atto estremo, mi ha convinto subito, e sono stato catturato dallo ‘Svedese’ e dall’analisi del rapporto padre-figlia. E’ un uomo che crede fermamente nel vivere la sua vita in modo giusto. E’ un prodotto del dopoguerra e incarna in modo totale l’idea che un tempo ci fosse un Sogno Americano apparentemente raggiungibile. In un certo senso, lo ‘Svedese’ è il Sogno Americano e sua figlia Merry è gli anni Sessanta”.
“La tua vita attinge dalla tua esperienza e dalla tua immaginazione – precisa sul personaggio -, se fai un padre attingi di più dalle esperienze personali. Ovviamente, quando fai il serial killer ti affidi soprattutto all’immaginazione”. “Per più di 24 anni ho lavorato con tanti registi (dal lancio con “Trainspotting” di Danny Doyle a “Star Wars” ndr.) – spiega -, credo di aver imparato da tutti loro, non c’è un modo giusto o sbagliato di fare la regia. Il film parla dell’American Dream Generation e dei Sixties della protesta e del Vietnam, e coinvolge persone più grandi e anche meno grandi. Il cinema permette il lavoro di persone diverse, ma ci sono cose che funzionano e cose che non funzionano”.
“Da Danny Doyle ho fatto una sorta di proiezione di lui, perché allora sul set guardavo quello che faceva, ed è una grande soddisfazione da regista cogliere quello che gli attori stanno facendo. A volte, se fai anche l’attore non capisci quello che fai – dice scusandosi con Jennifer -. Dipende dalla collaborazione, dalla magia che si crea sul set, perché ti ritrovi a fare cose che non pensavi di fare, né di essere capace di fare. ‘American Pastoral’ esplora un momento specifico, la rotta di collisione con la generazione successiva, con una figlia politicizzata, radicalizzata e infine terrorista; le rivolte fuori dalla fabbrica, la sommossa dei neri che ricorda qualcosa dell’oggi, ma non è intenzionale, non c’è perché è d’attualità ma perché succedeva allora. E, come
scozzese – precisa per chi gli ricorda le sue origini -, ho il diritto di esprimere un’opinione sul mondo”. “Ballare con David Bowie – ricorda la Connelly, con cui aveva lavorato, ancora adolescente, in “Labyrinth - Dove tutto è possibile” –, è stata un’esperienza che non avevo mai fatto prima, ero goffa, impacciata, e dovevamo fare dei passi all’indietro, ma lui scherzava, era dolce, gentile, ed è diventato il mio eroe, è stato lui ad aiutare me”.
Ora McGregor ha appena finito di girare “Trainspotting 2”, diretto dallo stesso Boyle. “Ho potuto incontrarmi con tutti i vecchi attori e, ovviamente, con Danny”, conclude. Nel cast anche Peter Riegert (Lou Levoy), Rupert Evans (Jerry Levoy), Uzo Aduba (Vicky), Molly Parker (Sheila Smith), Valorie Curry (Rita Cohen), Julia Silverman (Sylvia Levoy), Samantha Mathis (Penny Hamlin), Mark Hildreth (agente Dolan) e David Strathairn (Nathan Zuckerman).
Ovviamente tra film e libro non c’è paragone perché si tratta di una fedele trasposizione che non raggiunge la potenza del romanzo, ma ricostruisce una vicenda, metafora della società americana dell’epoca, fra contraddizioni e ideali, piaceri del corpo e tormenti dell’anima, pace apparente e guerra lontana ma vera. Però The Hollywood Reporter afferma "Per Philip Roth è l'unica trasposizione cinematografica davvero all'altezza di un suo libro". La vendita biglietti per l’anteprima al Barberini – nell’ambito delle preaperture della Festa di Roma - in due ore sono esauriti, per tutte e quattro le sale. “Un bel segnale per il cinema – dice il distributore -, al di là aspettative”. José de Arcangelo
(3 stelle su 5) Nelle sale italiane dal 20 ottobre distribuito da Eagle Pictures in 200 copie

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