giovedì 2 marzo 2017

James Mangold ci porta in viaggio nell'ultima missione di "Logan" (Wolverine) nel nostro apocalittico mondo senza pietà

Nel 2029 i mutanti da venticinque anni non nascono più – almeno così sembra -, sono spariti, anzi sono stati sterminati, o quasi. Un Logan/Wolverine (Hugh Jackman in grande forma) isolato, deluso e scoraggiato sta affogando le sue giornate nascosto in un remoto angolo del confine col Messico, El Paso, racimolando qualche
dollaro come autista di limousine. I suoi compagni d'esilio, rifugiati in un capannone abbandonato, sono l'emarginato Calibano (Stephen Merchant) e il Professor X (un intenso Patrick Stewart), ormai malato, la cui mente prodigiosa è afflitta da crisi epilettiche sempre peggiori, catastrofiche anche per chi gli sta intorno. Ma i tentativi di Logan di nascondersi dal mondo e dalla sua eredità sono vani e finiscono improvvisamente quando una misteriosa donna messicana arriva con una insistente richiesta: scortare una straordinaria
ragazzina, Laura (Dafne Keen, una rivelazione) e portarla al sicuro oltre la frontiera nord, ovvero in Canada. Presto Logan sarà costretto a sfoderare nuovamente gli artigli per affrontare forze oscure e nemici riemersi dal suo passato in una missione mortale per salvare i futuri x-men e che lo porterà a compiere il suo destino. Sceneggiato dal regista James Mangold, da un suo soggetto, con Michael Green – che firma anche i recenti sequel e/o remake, non ancora usciti, di “Alien: Covenant”, “Blade Runner” e “Assassinio sull’Orient
Express” – e David James Kelly, e diretto con grande efficacia dallo stesso Mangold (da “Ragazze interrotte” a “Wolverine: l’immortale”), “Logan” coinvolge ed emoziona, perché oltre allo spettacolo offre una profonda analisi psicologica dei personaggi, soprattutto del protagonista, e ne fa persino un spietato quadro del nostro mondo sprofondato verso un incerto futuro. Non a caso si parte proprio da quella frontiera in cui Trump vuole alzare un muro. E gli esperimenti (di tipo nazista) sui piccoli x-men vengono fatti sui bambini oltre frontiera.
E Mangold si affida alle atmosfere del vecchio caro western classico – non a caso c’è la citazione, tramite schermo televisivo, de “Il cavaliere della valle solitaria” di George Stevens (1953) con Alan Ladd -, fondendola con quelle di un cupo ‘on the road movie’ e concentrandosi sulla psicologia del protagonista, tornato uomo, debole, deluso e, perché no, vendicativo. Nel film c’è comunque l’azione e, i tanti, nemici vengono uccisi senza pietà, tanto lo sono anche loro, per offrire ai ragazzi una possibile salvezza e possibilmente un mondo migliore. E nonostante la durata di 127’, non ci sono tempi morti né spazio per la noia.
Nel cast Boyd Holbrook (Pierce, il perfido antagonista), Elizabeth Rodriguez (Gabriela), Richard E. Grant (Dr. Rice), Eriq La Salle (Will Munson), da “ER - Medici in prima linea” a “24” in tivù); Elise Neal (Kathryn Munson) e Quincy Fouse (Nate Munson). Il direttore della fotografia è John Mathieson che ricrea la giusta atmosfera apocalittica, mentre Mario Beltrami – due nomination all’Oscar per “Quel treno per Yuma” (2007) e “The Hurt Locker” (2010) - firma l’efficace colonna sonora. José de Arcangelo
(3 ½ stelle su 5) Nelle sale italiane dal 1° marzo distribuito da 20th Century Fox Italia

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