lunedì 27 marzo 2017

Prodotto dallo studio Ghibli e firmato dall'olandese premio Oscar Michael Dudok de Wit, ecco "La tartaruga rossa", un film d'animazione che fonde metafora e poesia

Ecco un film d’animazione destinato al pubblico adulto ma al tempo stesso adatto anche ai ragazzi, soprattutto adolescenti, perché fonde allegoria e poesia, esistenzialismo ed ecologia, fantasia e realtà. Presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma – in collaborazione con Alice nella Città – e nomination all’Oscar per il Miglior lungometraggio d’animazione – con “Kubo e la spada magica”, “Oceania”, “La mia vita da zucchina” e il vincitore “Zootropolis” -, “La tartaruga rossa” (La tortue rouge), coinvolge
e conquista perché originale e innovativo, classico e contemporaneo, commovente e suggestivo, e non ha niente da invidiare dai film con attori in carne e ossa, anzi. Firmato dal veterano regista olandese Michael Dudok de Wit (autore del cortometraggio premio Oscar “Father and Doughter”), non a caso è prodotto dal mitico studio Ghibli – il primo film occidentale -, quello del maestro Hayao Miyazachi e Isao Takahata (lui ha contattato l’autore), e dalla francese Wild Bunch per lo
studio Prima Linea. “La tartaruga rossa” narra, attraverso la storia di un naufrago su un’isola tropicale deserta, ma popolata da tartarughe, granchi e volatili, le tappe dell’esistenza umana. Infatti, la tartaruga marina del titolo, è una creatura dell’oceano rispettata, solitaria e quieta tanto da sembrare di essere quasi immortale, ed è la vera protagonista perché, come la mitica sirena, anziché morire diventa donna e poi madre. Ed è lei a impedire al disperato naufrago di fuggire e tornare nel suo mondo. Un lungometraggio realizzato con le tecniche tradizionali (per il 90% ‘a mano libera’), unendo il gusto e
l’arte di Oriente e Occidente, in cui la vecchia storica matita sposa le nuove ‘penne’ digitali (per le tavole grafiche) e il computer (per manovrare le tartarughe). Il tutto per un film che recupera la capacità di comunicare senza l’ausilio della voce umana come nel cinema muto. Quindi, senza narratore né voci fuori campo né dialoghi, “La tartaruga rossa” – sceneggiato da Dudok de Wit con Pascale Ferran - trasmette emozioni e meraviglia, sussurri e grida, rumori e suoni della natura che circonda i protagonisti, soprattutto un maestoso oceano, ora calmo ora tempestoso.
Non ci sono i colori vivaci e scintillante del maestro giapponese, ma quelli pastello della narrativa (i fumetti) e dell’animazione europea, ma tutto è in raro equilibrio tra realtà e favola, tra poesia e metafora, tra morte e rinascita, che sono gli argomenti su cui ci induce a riflettere. “Il film racconta la storia in modo lineare e circolare – confessa l’autore - e utilizza il tempo per parlare dell’assenza di tempo, un po’ come la musica può mettere in rilievo il silenzio. E’ un film che racconta anche che la morte è una realtà. L’essere umano tende a contrastare la morte, ad averne paura, a
lottare per scagionarla e si tratta di un atteggiamento molto sano e naturale. Eppure si può avere nello stesso momento una bellissima comprensione intuitiva del fatto che siamo pura vita e non abbiamo bisogno di opporci alla morte. Spero che il film trasmetta un po’ questo sentimento”. Infatti, è proprio questo che scopriamo in filigrana e che ci emoziona veramente. Le efficaci musiche sono firmate da Laurent Perez del Mar e il montaggio da Céline Kélépikis José de Arcangelo
(4 stelle su 5) Nelle sale italiane dal 27 marzo distribuito da Bim Film - A Roma al Dei Piccoli, Madison

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