giovedì 23 marzo 2017

Quando "Alien" incontra "Gravity", ovvero "Life - Non oltrepassare il limite" dello svedese Daniel Espinosa, un gustoso thriller fantascientifico

“Life - Non oltrepassare il limite” dello svedese (nonostante il cognome) Daniel Espinosa - al suo terzo film americano -, è un thriller fantascientifico sulla scia di “Alien” perché parte dallo stesso spunto e ha
una struttura molto simile, magari aggiornata e corretta, grazie ai grandi mezzi offerti dalle nuove tecnologie proprio quelle che, oltre trent’anni fa, erano intuizioni o fantasie futuristiche, oggi sono diventate in gran parte realtà.
Infatti, sceneggiato da Rhett Reese & Paul Wernick, narra l’avvincente e tragica esperienza dell'equipaggio di una stazione spaziale internazionale (simile a quelle intuite da “Star Trek”, ma contemporanea, e sempre composta da americani, russi, giapponesi) che si appresta a tornare sulla Terra, forte di una scoperta straordinaria: un campione che prova l'esistenza della vita extraterrestre su Marte.
Al sicuro in una ‘incubatrice’, la neonata forma di vita raccolta sul pianeta rosso – prima unicellulare poi si fonde con migliaia di altre - cresce a vista d'occhio, rivelandosi più intelligente e pericolosa di quanto il gruppo di astronauti pensasse, tanto da considerarla una dolce creatura tanto da festeggiare la sua ‘vita’ marziana sulla Terra e chiamarla Calvin. Di fronte alla minaccia che l'alieno inizia a rappresentare per l'umanità intera, quel pugno di uomini e donne alla deriva nello spazio si prepara ad annientarlo prima che sbarchi sulla Terra.
Nonostante la vicenda non originale, “Life” inizia in un ambiente claustrofobico sereno, quasi spensierato che – fra suspense e tensione e in un crescendo inquietante - diventa vero thriller orrorifico. Come di consueto sono ben disegnati (ma non approfonditi) i caratteri e le psicologie dei personaggi che offrono una galleria ben definita del genere umano. E, tra rimandi e citazioni (la creatura ‘finale’, sorta di medusa dall’incredibile forza rivela una testa ‘rambaldiana’, e il finale, benché beffardo, si riavvicina a “Gravity”), offre due ore di godibile spettacolo su un gruppo di uomini e donne ‘persi o abbandonati’ nello spazio.
Bello ed efficace anche il gruppo – sul tipo ‘e poi non ne rimasse nessuno’ come nei “10 piccoli indiani” di Christieniana memoria - di attori capeggiati dal trio Jake Gillenhaal (David Jordan che deluso dal nostro mondo, tra guerre e inquinamento, vorrebbe restare sullo spazio), Rebecca Ferguson (Miranda North) e Ryan Reynolds (Rory Adams), assecondati da Olga Dihovichnaya (Ekaterina Golovkina), Ariyon Bakare (Hugh Derry), Hiroyuki Sanada (Sho Murakami). José de Arcangelo
(3 stelle su 5) Nelle sale italiane dal 23 marzo distribuito da Warner Bros. Entertainment Italia

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